venerdì 11 aprile 2014

Lavoro

Quante ore dedichiamo al lavoro ogni settimana? Fare il conto è diventato pressoché impossibile. Quaranta? Trenta? Trentasette? La verità è che, per molte professioni, l’orario di lavoro non esiste più. Semplicemente si comincia quando ci si sveglia. E si smette un attimo prima di spegnere l’abat-jour. L’altra faccia della medaglia è che talvolta il privato si conquista pezzi dell’orario standard di lavoro. Questione di sopravvivenza. Spesa online, colloqui con i professori dei figli, il nonno da portare alla visita di controllo: non si può fare altrimenti. Lucy Kellaway, pregiata columnist del Financial Times, ha coinvolto i suoi lettori in un esercizio semplice solo in apparenza: conteggiare le proprie ore di lavoro settimanali. Sembrava facile, invece…
L’impresa si è arenata su un quesito cruciale:
«L’idea per questa rubrica mi è venuta mentre me ne stavo nella vasca da bagno: era relax o era lavoro?», si è chiesta la Kellaway, senza riuscire a darsi una risposta. Il tema ha coinvolto i lettori.
Tra i commenti, quello più illuminante è venuto da tale Philip G. Cerny, professore emerito di Politica e affari globali. «La verità è che il lavoro non si può più misurare in ore — fa notare Cerny —. Andrebbe parametrato sui risultati».
E da noi, in Italia, come va? Non tanto bene per la verità. L’Ocse ci ha spiegato di recente che gli italiani lavorano 200 ore più dei danesi, addirittura 300 più di olandesi e tedeschi. E il tutto guadagnando di meno. Colpa di un sistema produttivo che in questi anni ha perso terreno. Se c’è una piscina da svuotare, un conto è avere a disposizione un secchio, un altro poter contare su un’idrovora. Gli italiani spesso hanno il secchio. E quindi devono lavorare di più (pagati di meno). Poi c’è un problema culturale. Le aziende valutano ancora il personale per le ore spese in ufficio e non per i risultati. Anacronistico. Tanto più che oggi le tecnologie permettono di lavorare dappertutto. E allora dovrebbe funzionare il lodo Kellaway: le buone idee comandano, anche quando fanno capolino mentre si sta nella vasca da bagno.
In Italia sono le aziende straniere a fare da apripista, dall’alta tecnologia al credito. Microsoft, Ibm, Coca-Cola, Nestlé, Siemens, Plantronics, Alcatel, L’Oréal e di recente anche Sanofi hanno introdotto nuove modalità organizzative che lasciano liberi i dipendenti di lavorare da casa o da dove preferiscono: alla fine contano i risultati.
Le imprese italiane per il momento stanno a guardare. Ma se è vero che i dipendenti devono usare il secchio al posto dell’idrovora, allora lasciare loro la libertà di organizzarsi potrebbe portare delle sorprese.
Il «rischio» è che per avere un po’ di libertà di manovra in più il personale diventi anche più produttivo. Per di più si tratterebbe di una politica di conciliazione famiglia-lavoro, la chiamano gli inglesi) a basso costo.
Nel disegno di legge delega sul lavoro si parla dell’incentivazione di contratti collettivi che rendano flessibile l’orario anche grazie al telelavoro. Diciamo che la formula è un po’ vaga. Ci sta dentro di tutto, dal vecchio telelavoro al lavoro smart o agile. Che poi sono due modi di dire la stessa cosa: lavorare dove e come si vuole nella consapevolezza di essere valutati sui risultati. Tra tante «svolte buone», questa potrebbe essere ottima.

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